L’ABBAZIA BENEDETTINA DI S. MARIA DELLE MACCHIE
di Annalisa Paoloni
L’architettura romanica delle Marche, sviluppatasi nei secoli XI-XIII, ha trovato una delle sue massime espressioni artistiche nelle abbazie, monasteri autonomi (sui iuris) diffusi dopo il Mille in modo numericamente consistente e capillare lungo le vie di transito ed i corsi d’acqua, secondo una trama di insediamenti priva di smagliature. Nel diversificato paesaggio marchigiano un numero considerevole di abbazie, delle quali un centinaio sono documentate, sembra aver privilegiato le aree più interne della regione, quelle montuose e collinari per intendersi, come nel caso dell’abbazia di S. Maria delle Macchie, sorta lungo la fertile vallata del Fiastra, a pochi chilometri dall’abitato di San Ginesio, percorrendo la Statale 78. La consultazione dei documenti archivistici fornisce scarne notizie e nulla si sa della data di fondazione che, a quanto dicono alcuni storici locali, è da fissarsi tra VIII e IX secolo, a causa dell’ampio uso di materiale romano di reimpiego nella cripta, mentre con molta probabilità essa è da posticiparsi a dopo il Mille. Una carta, datata 1171 e ritenuta la più antica attestazione riguardante l’abbazia, secondo recenti studi non si riferirebbe in realtà a questo edificio, bensì ad un altro dalla medesima intitolazione sito a Gagliole, nei pressi di San Severino. Altri e, finalmente, più sicuri documenti risalenti al XIII secolo ci informano dell’interferenza delle autorità sanginesine sulla elezione degli abati, fenomeno che proseguirà nei secoli successivi, e ci parlano di alcuni aspetti economici, quale, ad esempio,la concessione in enfiteusi delle terre abbaziali a coloni. Nei primi anni del ‘500 essa veniva data in commenda ed infine abbandonata nel 1848, dopo altalenanti ritorni ed allontanamenti dei monaci benedettini, dovuti alle ben note soppressioni napoleoniche. La struttura architettonica del complesso abbaziale ha subito radicali trasformazioni dovute alla ristrutturazione condotta, per esigenze abitative, nel 1658 dal cardinale commendatario Pallotta. La facciata della chiesa venne sopraelevata e conclusa da un timpano curvilineo mentre l’originario rosone che vi si apriva, di cui appaiono deboli tracce , venne tamponato ed al suo posto furono praticate quattro finestre. Una attenta lettura del prospetto evidenzia, tuttavia, l’originaria ghiera in cotto del portale ed alcuni frammenti marmorei a fregi e volute, ivi inseriti, che manifestano la loro derivazione romana. L’impianto a navata unica della chiesa, ora coperta da volte a padiglione, e la forte sopraelevazione sulla cripta del presbiterio, a cui sono state addossate, sempre nel XVII secolo, due ampie cappelle, rimandano ad una ancora evidente impostazione planimetrica medioevale. Maggiore interesse artistico riveste la cripta, che conserva intatti i caratteri originari della costruzione primitiva, l’analisi dei quali consente una datazione riferibile al secolo XII. L’ambiente di vaste dimensioni risulta suddiviso in sette navatelle, coperte da volta a crociera impostate su colonnine in laterizio sormontate da capitelli, poggianti su collarino, dall’identica forma a tronco di cono con smussature angolari, privi di decorazione eccetto due che presentano motivi decorativi vegetali ed animali. La presenza massiccia di materiale di risulta di epoca romana, evidente nei capitelli di tipo ionico e nelle colonnine a fusto marmoreo che circondano l’altare, conferisce grande preziosità e sacralità all’ambiente, creandovi una sorta di ‘recinto sacro’, ove trova utilizzazione come colonna una pietra miliare, posta in antichità lungo la strada consolare Flaminia, recante una iscrizione in lode dell’imperatore Costanzo II (337-361), fatta incidere dal governatore Pisidio Romolo. La particolarità del reperto è, infine, accentuata dall’interessante capitello montatovi a rovescio di recente identificato come un omphalos, decorato con un motivo figurato a rilievo raffigurante due sfingi affrontate che appoggiano una zampa su un thymiaterion e da una coppia di buoi ai lati.